Dopo il successo della prima puntata dedicata alle leggi razziali continua il nostro appuntamento con la storia delle nefandezze del Fascismo per contrastare il «male della dimenticanza».
Ottobre 2012. Un liceo di Roma. Una professoressa dice ad una studentessa di origine ebraica: “Ad Auschwitz saresti stata più attenta!”. La ragazza scoppia a piangere. Alcuni compagni insorgono. Ma la storia resta lì. Per mesi tutti minimizzano, mentre l’autrice di un gesto così ripugnante spiega: “Non sono razzista, volevo solo riferirmi ad un posto organizzato”. Oggi il fatto riaffiora.
Episodi come questo dimostrano un dato: troppi dimenticano cos’è il fascismo. In sostanza troppi dimenticano che la democrazia e la libertà sono valori mai conquistati una volta per tutte.
Il Male della Dimenticanza si cura guardando dritto negli occhi la storia del Ventesimo secolo. E leggendola come se fosse oggi, perché se l’amore per la libertà si affievolisce gli orrori che abbiamo alle spalle potrebbero ripetersi oggi.
Perciò vi raccontiamo un episodio che è accaduto il 10 giugno del 1924 come se il 10 giugno 1924 fosse appena ieri.
ROMA, RITROVATO IL CADAVERE DI MATTEOTTI
Il capo del governo: “Si, è opera mia. Qualcosa da obiettare?”
di Sergio Talamo
Roma, 10 Giugno 1924. I suoi resti non li potrebbero riconoscere neppure sua moglie e neppure sua madre, due donne disperate che per oltre 60 giorni hanno invano chiesto udienza ai politici, ai giornali, alla chiesa. Giacomo Matteotti, deputato socialista, fu rapito circa due mesi fa. Tutti lo videro, perché i 5 sicari del Regime lo prelevarono a Roma, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, alle 16.30 mentre andava alla Camera. Giacomo si difese come un leone, gettò fuori dal finestrino la sua tessera di deputato perché qualcuno capisse, lo aiutasse. Niente. Dentro la vettura continuò a lottare, quindi fu accoltellato e ucciso. I cinque vagarono per alcune ore, poi gettarono il cadavere in una campagna nei dintorni di Roma. Ieri è stato ritrovato. Lo piange il suo Polesine, lo piangono milioni di lavoratori onesti. Ma lo piangono in segreto. Come questo giornale clandestino, che
oggi vuole ricordare chi era e chi lo ha massacrato.
La società italiana non ha capito, fino all’ultimo. La borghesia ha finto di credere che il Regime sia solo un argine al disordine, all’anarchia all’inflazione galoppante. Ora che i fascisti svelano la loro vera indole, il Paese è attonito perché capisce che è ormai tardi. Il capo del Governo, dopo aver compreso che le proteste per il sequestro Matteotti erano sterili e fiacche, ieri stesso è andato alla Camera e ha preso la parola: “Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda; se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! (Vivissimi e prolungati applausi – Molte voci: Tutti con voi!)».
Il confronto fra queste parole, che consacrano l’agonia sanguinaria della democrazia italiana, e l’ultimo discorso di Giacomo Matteotti, è abbagliante: “… Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della Nazione… Se la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza… Voi volete ricacciarci indietro…”.
Giacomo veniva dal Polesine, basso Veneto che abbraccia l’Emilia. Ha costruito lì la sua indomabile passione politica. Il suo socialismo era fatto di rapporti stretti e fraterni con le persone, i contadini soprattutto, cui non offriva astrazioni o protezioni ma istruzione. Per lui il riscatto degli ultimi partiva dalla conoscenza. Quando l’Italia iniziò ad accartocciarsi nella crisi della democrazia parlamentare, Matteotti faceva la spola fra la Roma in cui era deputato e la sua terra. E viaggiava molto, per tenere uniti i suoi compagni, per non far morire la speranza. Ci metteva la faccia, sempre, e così la sua faccia per i fascisti diventò un simbolo da colpire. Il deputato socialista fu aggredito a Siena, a Cefalù, persino nella sua Rovigo: lo sequestrarono e lo picchiarono, forse lo stuprarono, prima di abbandonarlo in campagna minacciandolo di morte se fosse tornato in Polesine.
Lui naturalmente ci tornò. E alla Camera attaccò duramente il fascismo. In un’occasione definì le camicie nere “bande di criminali”. Quelli gli urlarono di tacere e di “non ingiuriare”. “Credevo che ricordare ai professionisti la loro professione non fosse un’ingiuria”, replicò Matteotti.
Oggi che ogni voce si spegne, oggi che il Governo ha appena annunciato l’abolizione della libertà di stampa e la nascita di un Sindacato Unico di Regime, ricordiamo con Giacomo Matteotti le sue parole di poche settimane fa alla Camera, subito dopo le ultime elezioni segnate da violenze in tutto il Paese. Giacomo intervenne a braccio per dire che il voto si era svolto sotto la minaccia “di una milizia armata” al servizio del capo del Governo. Partirono subito schiamazzi, interruzioni, insulti. I deputati fascisti scesero dall’emiciclo. Alla fine, Matteotti disse ai suoi compagni: “A questo punto preparate la mia orazione funebre”. Sarà ucciso pochi giorni dopo, per ordine del capo del Governo alla sua polizia segreta: “Dopo un tal discorso, perché Matteotti gira ancora?”. Matteotti aveva 39 anni.