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Genova: Ecuadoriana trova alla figlia rapita e torturata dal padre

Genova: Ecuadoriana trova alla figlia rapita e torturata dal padre

Peggio delle botte che aveva sopportato tante volte in silenzio, confondendo la violenza con l’amore. Martha, 39 anni, ecuadoriana, quando ha riabbracciato la sua bambina di 18 mesi dopo tre giorni di separazione forzata, ha visto tra le lacrime che il volto della piccola era segnato da bruciature di sigaretta. Ed è scappata di casa, per trovare solo dopo alcuni giorni la forza di presentarsi in questura.

 

 

Genova 13 Settembre 2013 – «È stato il mio compagno, suo padre, a rapirla e a ridurla così – ha raccontato stringendo la bambina – non so dove l’avesse portata, non so cosa le ha fatto durante i tre giorni in cui me l’ha nascosta. Ma quando l’ha riportata a casa era sporca, dimagrita, ferita. Sono qui per lei». Alla terza sezione della squadra mobile, il gruppo specializzato nei reati contro le donne e i minori, le vicende di violenze all’interno della famiglia sono una parte del lavoro quotidiano.

«Molte non le rendiamo pubbliche perché sarebbe come tradire la fiducia di chi viene da noi a denunciare, spesso con molta paura, quello che accade nel chiuso dell’ambiente familiare – racconta una funzionaria – ma questa volta è giusto parlarne». È giusto perché (anche se non può esistere una classifica degli orrori) strappare una figlia a una donna per ripicca, spegnere un mozzicone sul volto di una bambina, è una violenza non diversa, forse peggiore, da altre che la cronaca di questi giorni è costretta a raccontare con inquietante frequenza.

La storia è dettagliata, anche se è necessario omettere ogni particolare che renda riconoscibili i protagonisti. Lei, 39 anni, è arrivata in Italia dall’Ecuador nel 2011 inseguendo il sogno di ogni immigrato, sull’esempio di altri parenti che l’avevano preceduta a Genova.

Clandestina, crede di trovare un conforto nell’abbraccio di quel connazionale di sei anni più giovane che sembra già inserito nel nuovo ambiente, è in regola con i documenti e si arrangia facendo lavori saltuari, Martha non può sapere che è già conosciuto alla polizia e la sua precedente compagna lo ha denunciato per maltrattamenti.

La donna capisce quale sarà il suo destino quando iniziano le botte, ma è già tardi. Lei, di tanto in tanto, si presenta al pronto soccorso raccontando qualche scusa per giustificare lividi e contusioni. Dice di essere caduta, di aver avuto un mancamento. Gli episodi si ripetono anche quando, un paio d’anni fa, resta incinta. E cresce la paura ogni volta che si fa visitare: «Sono scivolata, ho male alla pancia, posso stare tranquilla?».

Vive esclusa dal mondo. Ogni volta che esce di casa deve chiedere il permesso al compagno-padrone che le impedisce di frequentare chiunque, le vieta di lavorare e intanto minaccia di denunciarla perché non ha (e non può avere) un permesso di soggiorno. La sua speranza, adesso, è quella bambina che nasce sanissima un giorno di primavera del 2012. Malgrado tutto. E per qualche momento sembra ridarle la voglia di vivere.

Invece, l’inferno continua e si aggrava. Il compagno-padrone, dopo il parto, usa la bambina per ricattare la madre. E ai primi del mese, una mattina, fa la cosa più atroce: gliela strappa letteralmente dalle braccia ed esce di casa sbattendo la porta. Quando torna, la piccola, semplicemente, non c’è. E, di fronte al pianto e alle domande, non c’è alcuna risposta. Silenzio, insulti e altre botte. E violenza. Vivono tre giorni sotto lo stesso tetto così, nello strazio.

Poi, come se niente fosse, lui esce di casa e ritorna con la bambina, mamma e figlia possono piangere e abbracciarsi. Ma la piccola è sporca, ha il viso segnato da bruciature. E questa volta la donna trova la forza di ribellarsi, appena resta sola prende la bambina con sé e scappa, trova un alloggio provvisorio. Poi, dopo altri giorni di disperazione, accetta il consiglio che qualcuno le ha dato e si presenta alla polizia.

Ricostruire la sua storia non è semplice, l’agente che raccoglie la sua denuncia si accorge subito che, appena ventiquattr’ore prima, l’uomo che lei accusa ha presentato a sua volta una denuncia di scomparsa: sperava fosse la polizia a restituirgli la “sua” donna, per questo aveva avuto l’impudenza di denunciarne la sparizione.

«Abbiamo trovato precisi riscontri al racconto di quella povera mamma e abbiamo informato la magistratura, il sostituto procuratore Piercarlo Di Gennaro ha ritenuto gli indizi sufficienti per richiedere l’arresto di quell’uomo». È un rosario di accuse pesantissime. Nei confronti della compagna: maltrattamenti in famiglia, tentata violenza sessuale, minacce gravi e aggravate, violenza privata.

E in più sottrazione di incapace e abbandono di minore aggravato dalle lesioni commesse ai danni della figlia. Adesso la donna è al sicuro in una comunità protetta, avrà un permesso di soggiorno e potrà sperare di avere una vita nuova. Con la sua bambina. Ma con la paura, fin d’ora, che una volta libero l’ex compagno torni ad essere un’ombra sulla sua vita. Per il codice uno stolker, per lei (come per troppe altre donne) un incubo senza fine.

IlSecoloXIX

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